Nel corso dell’incontro l’azionista franco-indiano ha dichiarato la sua indisponibilità a partecipare alla ricapitalizzazione, nemmeno per una quota minoritaria, e a non voler aderire al progetto di investimento di 1,32 miliardi di euro

di Mario Tosetti

Tutti si attendevano un accordo favorevole sul rilancio dell’acciaieria di Taranto, con una marcata presenza del governo dell’attuale maggiore azionista, Arcelor Mittal. Tuttavia, l’incontro a Palazzo Chigi è finito in una bolla di sapone, quando l’azionista franco-indiano ha dichiarato la sua indisponibilità a partecipare alla ricapitalizzazione, nemmeno per una quota minoritaria, e a non voler aderire al progetto di investimento di 1,32 miliardi di euro che avrebbe portato Invitalia a detenere il 60% della società (attualmente detenuta da Arcelor-Mittal al 62%). Secondo la nota rilasciata da Palazzo Chigi, le proporzioni si sarebbero quindi modificate significativamente, con un finanziamento immediato di soli 320 milioni di euro. Il governo, prendendo atto dell’opposizione di Arcelor Mittal, ha incaricato Invitalia di agire di conseguenza, tramite i propri avvocati.

A questo punto, tutti gli scenari sono possibili, incluso l’avvio di un’amministrazione straordinaria. Il governo ha programmato una riunione con i sindacati per giovedì 11 gennaio, per discutere e fornire dettagli sulle future procedure. Comunque, appare chiaro che trovare una soluzione armoniosa non sarà semplice data la concreta possibilità di una battaglia legale. Fra le opzioni ancora in considerazione c’è l’attivazione di un’amministrazione straordinaria, a richiesta del socio pubblico, applicando una normativa del decreto 2/2023. Tuttavia, questa mossa potrebbe innescare una lunga e complessa controversia con il socio privato. Un’alternativa potrebbe essere la composizione negoziata della crisi, tramite una procedura extragiudiziale che permette l’adozione di misure protettive temporanee per prevenire l’assalto al patrimonio dell’azienda da parte dei creditori. Il piano di iniezione di capitale avrebbe dovuto garantire la continuità operativa dell’azienda. L’incubo peggiore sarebbe l’attivazione dei procedimenti per le grandi imprese in crisi, che potrebbe mettere in pericolo il posto di lavoro di quasi 20.000 dipendenti.

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