di Ennio Bassi

Milano – Il Coronavirus ha dimostrato che anche per la comunicazione “nulla sarà più come prima”. Il lockdown è stato di fatto un acceleratore, è riuscito cioè a far capire anche ai meno attenti che il mondo è diventato digitale e che si vince con i numeri, con la rapidità e con l’efficacia. Per quanti erano ancora abituati alla logica dello scambio, delle relazioni preferenziali basate sul sinallagma favori/pubblicità in cambio di visibilità mediatica, con Covid-19 hanno avuto un risveglio traumatico. La crescita del digitale ha infatti scoperchiato anche il vaso di pandora della comunicazione dimostrando due cose: 1) i numeri contano, anche più del blasone delle testate; 2) con il web, che annulla le rendite di posizione in favore della qualità, vincono solo i comunicatori migliori, coloro che alla capacità strategica sommano competenze digitali e garantiscono risultati misurabili. Vediamo dunque di capire chi in questi tre mesi di crisi drammatica, con il paese alle corde, è riuscito a salire sul carro dei vincitori e chi invece ha confermato di appartenere al vecchio mondo.

Partiamo intanto con un dato di mercato. Nel pieno della crisi Il Corriere della Sera ha dimostrato di sapere stare benissimo “sul pezzo” scavalcando nella classifica Audiweb La Repubblica e conquistando, ad esempio nella settimana dal 9 al 15 marzo, la leadership con 25 milioni di utenti unici. Oggettivamente un grande risultato per i siti tradizionali, mentre invece è ben poca cosa per quelli innovativi. Insomma, quello che offre il re dei giornali italiani è un risultato che su internet, usando le adeguate tecniche di diffusione, si può raggiungere comunque facilmente. Questo per dire che sui numeri ora più che mai vincono gli innovatori. Dunque, la questione si sposta sempre di più sulla qualità: quella di chi fa strategia e pianifica, quella di chi esegue e garantisce i risultati. A questo punto valutiamo chi in questi mesi da tregenda ha dimostrato di avere capito per tempo che con il digitale ed internet il mestiere del comunicatore è definitivamente cambiato.

La prima cosa da dire è che la competenza, come sempre nelle crisi, è emersa: i comunicatori veri hanno svettato, mentre lobbisti e uffici stampa a contratto, anche i più quotati, hanno stentato. Facciamo qualche esempio partendo dalle personalità più esposte, quelle di governo. Lo scenario era certamente complesso e del tutto nuovo. Il che è una giustificazione, ma fino ad un certo punto. Il comunicatore solido si vede soprattutto nei tempi di crisi. Qui invece la crisi ognuno se l’è giocata a modo proprio e non sempre brillantemente. Ne è uscita una comunicazione frammentaria, fatta per lo più da solisti. Il Premier Giuseppe Conte ha scoperto il bello della diretta ed è andato avanti così dall’inizio alla fine coinvolgendo ministri e struttura per il minimo sindacale. Un impeto che Rocco Casalino non è riuscito a trasformare in volano per l’interno Governo. Prova ne sia che il Premier ha avuto indici di gradimento migliori rispetto al Governo che presiede.  Tra i suoi ministri poi alcuni hanno subito inciampi clamorosi, come è capitato al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sul tema delle scarcerazioni e del CSM. Il Ministro per gli Affari Regionali Francesco Boccia invece è riuscito a polemizzare quasi con tutti, mentre il Ministro della Salute, Roberto Speranza, è sembrato preferire gli abiti del portavoce dell’Istituto Superiore della Sanità piuttosto che quelli del ministro competente. Insomma l’emergenza era grande mentre le soluzioni erano scarse ed i soldi pochi. Ma nel complesso la comunicazione pubblica è sembrata poco incisiva. E in questo senso non consola l’idea che grandi comunicatori come Donald Trump o Boris Johnson hanno fatto molto peggio dei nostri. L’unico gigante di casa nostra è stato l’uomo del Colle. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha detto quello che doveva dire quando lo doveva dire, dal lockdown fino alla questione CSM, e ha visto e sentito chi di dovere nel riserbo più assoluto. Il consigliere per la comunicazione, Giovanni Grasso, insieme a Elisabetta Santini e Costantino del Riccio, dal lato suo ha dato prova di come si possa fare efficacemente comunicazione istituzionale, senza trascurare i social network, come la battuta sui capelli ed il barbiere diventando virale ha dimostrato. Non proprio edificanti invece gli sproloqui e le dispute tra virologi e di epidemiologi vari e le conferenze stampa presso la Protezione Civile trasformate dopo qualche settimana in riti inutili se non dannosi. Scendendo sul territorio non si può poi fare a meno di paragonare la comunicazione del Presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e del suo assessore al Welfare, Giulio Gallera, decisamente surclassati dalla comunicazione digitale del Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, le cui video clip hanno dominato i social superando anche quelle di Donald Trump.

Venendo ora alle imprese private, la comunicazione più efficace all’epoca del Covid è certamente quella di Intesa Sanpaolo. Il team guidato da Stefano Lucchini (nella foto a sinistra con il Presidente USA Barak Obama) e con in squadra Matteo Fabiani, Fabrizio Paschina e Fabio Spagnuolo ha giocato e vinto una partita durissima. Come prima banca d’Italia, per altro la più presente nel territorio più colpito, rischiava di essere travolta dalla pandemia e dal tema liquidità, che è stato il vero incubo politico ed economico del trimestre. Invece Lucchini e company hanno giocato da subito all’attacco difendendo il proprio ruolo e dimostrando di avere una visione vincente e la capacità di attuarla. La donazione di 100 milioni fatta da Intesa per combattere il virus è stata la prima in assoluto ad arrivare. Ha creato emulazione, aprendo la strada a centinaia di altri donatori privati, ha infuso fiducia e ha fatto capire come una banca di sistema debba giocare il suo ruolo. La comunicazione è stata ineccepibile, e con almeno tre macro fronti aperti (pandemia, UBI, crisi di liquidità) non era scontato. Carlo Messina ha avuto modo di spiegare in Italia e all’estero la sua visione, la sua strategia, il suo modo di essere banchiere. Tutte le attività di Intesa sono state riprese quotidianamente sia sui giornali che sul web con grande puntualità. Si potrebbe eccepire che ciò è dovuto al fatto che Intesa Sanpaolo è un grande pianificatore pubblicitario e che come tale ha facilità a farsi ascoltare. Avere grandi mezzi certamente aiuta, ma non basta. Come vedremo, altre aziende con mezzi pari o superiori a quelli dell’istituto milanese hanno avuto esiti mediatici molto meno fausti. A cominciare da Unicredit che in questi mesi, ad eccezione di qualche uscita dell’Ad Jean Pierre Mustier e di qualche pubblicità, è sembrata toccare poco palla. E con questo torniamo a quello che dicevamo all’inizio: la rivoluzione digitale, al di là della capacità finanziaria dei singoli, mette in luce il manico buono e penalizza quello meno capace. Lucchini e il suo team hanno dimostrato di sapere il fatto loro.

Sulla stessa lunghezza d’onda Rodolfo Belcastro, capo della comunicazione di Sace. La sua azienda è stata da subito sotto il cono del grande riflettore mediatico anche perché scelta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze per erogare le garanzie di stato destinate, attraverso il sistema bancario, alle imprese. Un ruolo delicatissimo, perché poteva essere l’anello debole tra Stato e istituti di credito. In più i due amministratori di Sace, il Presidente Rodolfo Errore e l’Ad Pierfrancesco Latini, erano di fresca nomina. Anche qui, e senza neanche poter disporre di grandi budget, Belcastro è riuscito a lenire la forza degli attacchi e a valorizzare l’operato dell’azienda e dei suoi amministratori. Guardiamo ora la società controllante di Sace, vale a dire Cassa Depositi e Prestiti, il colosso pubblico che gestisce un attivo consolidato di 450 miliardi di euro. L’ambito, le tematiche e le criticità sono simili a quelle di Sace e di Intesa. Davide Colaccino, capo delle relazioni esterne di Cdp, è riuscito, insieme ad Alessandro Zerboni, Marco Battaglia e Fabio Marando, a fare in modo che i tanti dossier aperti, alcuni dei quali oggettivamente molto complicati, restassero nel tracciato delle attività istituzionali di Cassa. Missione non semplice anche perché Cdp è nei fatti il braccio operativo del Governo nella missione di contrasto agli effetti economici negativi della pandemia. Colaccino non solo ha gestito la crisi ma è riuscito in pieno Covid anche a varare una profonda riforma della sua struttura interna volta a colgiere le nuove sfide. Nel settore finanziario assicurativo, chi ha certamente gestito bene, è stato anche Unipol. Il capo delle relazioni esterne, Stefano Genovese, è riuscito a mantenere alto il profilo sia dell’azienda che dell’Ad Carlo Cimbri.

Anche Michele Bologna, capo della comunicazione di Enel Green Power, azienda leader mondiale nel mercato delle rinnovabili, ha avuto il suo da fare per mantenere alto il posizionamento della sua azienda soprattutto in un momento in cui il suo CEO, l’instancabile Antonello Cammisecra, per ovvie ragioni non ha potuto girare il mondo per presidiare mercati e progetti come invece fa di solito. Bologna e il suo team, da anni hanno investito in attività digitali e in questo frangente hanno ben raccolto i frutti del lavoro fatto. Tra i comunicatori di successo, ancora sul fronte internazionale, non possiamo non menzionare il capo della comunicazione di Salini-Impregilo, Luigi Vianello, e con lui i suoi più vicini collaboratori, Emanuela Angori e Antonio Ambrosio. Un’equipe che ha gestito con efficacia, anche all’estero, due eventi non proprio ordinari. Vale a dire il varo del nuovo Ponte di Genova e il rebranding aziendale, cambiato da Salini-Impregilo in Webuild.

Una menzione speciale va poi ad Antonio Troise, capo della comunicazione di Invitalia, che oltre a dover gestire le difficoltà del suo business tradizionale ha trovato il suo capo, Domenico Arcuri, proiettato sulla poltrona di Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, certamente la più scomoda e la più esposta. Troise, da subito in prima linea, è stato colpito dal Coronavirus e si è fatto tre settimane di ospedale. Ma appena guarito, anziché starsene in convalescenza, è tornato stoicamente al suo posto di combattimento. Un piccolo miracolo lo ha fatto anche Angelo Bonerba di FS Italiane che, nonostante la crisi dei trasporti, ha saputo gestire il lockdown e ben valorizzare i risultati positivi raggiunti dalla sua azienda negli ultimi 12 mesi.

Esempi positivi ma anche alcuni negativi che non a caso vengono da esperienze professionali ancora legate a pratiche comunicative novecentesche, gestite con logiche lobbistiche e da vecchio ufficio stampa. Una vittima eccellente di questo modo di fare comunicazione è stata Licia Mattioli, vicepresidente uscente della Confindustria targata Boccia, e avversaria di Carlo Bonomi nella corsa per la presidenza dell’associazione industriale. Il fatto che abbia perso la competizione non scandalizza. Partiva con un ruolo forte, ma l’avversario risultava da subito meglio piazzato. Quello che sorprende è il modo di fare comunicazione che ha contrassegnato tutta la sua campagna: sempre un po’ sopra le righe, lontana dalle questioni vere e persino poco in grado di valorizzare i pregi che pure Mattioli ha. L’esempio più clamoroso di questa comunicazione disastrosa si è avuto a due giorni dal voto, quando è stata fatta uscire una notizia, chiaramente forzata, secondo la quale i due candidati erano appaiati. Una fakenews, oltretutto dannosa, che è stata data in pasto a giornalisti amici nel tentativo disperato di fare capire che la corsa era ancora aperta quando anche l’ultimo degli uscieri di Viale dell’Astronomia sapeva che Bonomi era sempre in netto vantaggio. Insomma, è stata sospinta verso una inutile figuraccia.

Infelice anche la comunicazione di Autostrade per l’Italia. Dal crollo del Ponte Morandi in poi le società del Gruppo Benetton sembrano aver perso il contatto con gli dei della comunicazione che pure agli albori li avevano guidati positivamente per la via dello sviluppo. Ma la catena di errori di comunicazione, anche quelli recenti, non possono certo essere addebitati al solo responsabile di settore Stefano Porro, che è un professionista esperto. Semmai occorrerebbe capire chi in azienda orienta alla fine le scelte dell’Ad Roberto Tomasi, negli ultimi temi, probabilmente suo malgrado, molto attento alle questioni di comunicazione. Certo c’è da rivedere la strategia complessiva perché quella attuata finora non è apparsa adeguata.

Anche in casa FCA le cose non sono andate benissimo nel momento in cui da Torino hanno annunciato che avrebbero chiesto a Sace una garanzia da sei miliardi. Per come è stata gestita la prima uscita, quella che annunciava la richiesta, si potrebbe dire che è stata come minimo affrettata e scarsamente preparata. E dalle prime uscite dei giornali tutto questo è apparso chiaramente. Ma a limitare i danni ci ha pensato prima la stessa Sace, che ha spiegato perché l’operazione era tecnicamente ineccepibile, e poi Maurizio Molinari. Il neodirettore della Repubblica targata Exor ha prima spento sul nascere le velleità del Cdr e poi ha spiegato perché FCA Italia ha tutto il diritto di chiedere le garanzie di Sace. Una strada comunicativa nel cui solco poi si sono infilati tutti gli altri big richiedenti garanzie, a cominciare da Alpitour, Api, Aspi, Costa Crociere, Class, Eataly, Oviesse, Rinascente, Valentino e via di seguito.

Ma la maglia nera dei comunicatori nell’epoca di Covid-19 sono stati i rappresentanti di due delle categorie più colpite, vale a dire il mondo della moda e quello del turismo. Tranne le uscite pubbliche del povero Bernabò Bocca, che per la verità ha spiegato con efficacia ovunque sia andato, da Bruno Vespa al Tg1, che il suo settore era il più colpito, tranne appunto il Presidente di Federalberghi il resto è stato pari allo zero. E la stessa cosa è stata per il mondo della moda. Giorgio Armani è stato l’unico a mettersi in gioco: ha fatto, tra i primi, una importante donazione e ha provato a farsi sentire per come ha potuto. La foto di lui, ottantenne in vetrina intento ad allestire, è stato un gesto così profondo ed apprezzato da avere fatto il giro del mondo sui social in poche ore. Anche Renzo Rosso di Diesel ha provato a dare una smossa chiedendo interventi e sottolineando il ruolo strategico della moda per il nostro paese. Ma i due sistemi nel complesso non sono stati in grado di avere un’idea, un progetto, un’attività comune che consentisse di garantire loro visibilità, ascolto e risultati. E sulla stessa inefficace onda si è collocato il sistema della cultura. Tre settori chiave per il futuro del nostro paese. Ecco forse è questa la prova più evidente che “nulla sarà come prima”. Non si possono più affidare le sorti di settori così decisivi, veri architravi del nostro “made in Italy”, a chi non sa valutare l’impatto della comunicazione nella creazione di valore di un’azienda o di un paese e a chi, di digitale si riempie la bocca ma poi continua a gestire con logiche di epoche finite. Non si può più perché quando il gioco si fa duro solo la competenza può giocare. Ora più che mai.