Kuwait trent’anni fa: Oltre a Bellini e Cocciolone, cosa è rimasto nella memoria degli italiani?

In Kuwait, trent’anni fa. Cosa è rimasto nella coscienza collettiva del primo conflitto a cui l’Italia ha partecipato dalla fine della seconda guerra mondiale?

di Stefano Beltrame*

A gennaio l’offensiva aerea, con quelle affascinanti e terribili immagini dei bombardamenti notturni di Baghdad. La telecronaca diretta delle esplosioni tra i minareti fu un incredibile  evento televisivo che fece scoprire la CNN, il sistema nervoso del nostro piccolo villaggio globale. Seguirono le scioccanti immagini dei piloti abbattuti interrogati dagli iracheni. Tra questi anche il nostro Capitano Cocciolone con il viso tumefatto. A febbraio ci fu l’attacco terrestre, con i carri armati lanciati nel deserto come Rommel verso El Alamein. Poi le scene apocalittiche di mille pozzi in fiamme, con il cielo nero fumo come all’inferno, con gli uccelli marini coperti di catrame.

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Sono passati trenta anni dall’operazione Destert Strom, quella tempesta nel deserto scatenata nel 1991 per liberare il Kuwait dall’invasione irachena di Saddam Hussein. Per la libertà del piccolo Emirato, l’Italia tornò allora a partecipare attivamente ad un conflitto armato per la prima volta dalla seconda guerra mondiale. Per l’Italia – che, come dice l’art. 11 della Costituzione, ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali – fu un passo importante. Chi lo ricorda oggi?

Ci fu allora un grande ed accorato dibattito nazionale, nel Paese e nel Parlamento: sul concetto di guerra giusta e sul pericolo di una nuova terza guerra mondiale; sul petrolio causa di tutti i mali; sullo scontro di civiltà tra Islam ed Occidente apertamente evocato da Saddam Hussein; sulla distruzione di Israele con le armi chimiche.

Sono passati trent’anni e molte altre guerre, purtroppo, hanno offuscato il ricordo di quel primo conflitto del Golfo, ma quello fu un vero punto di svolta sotto molti punti di vista. Ebbe forse addirittura un ruolo (indiretto) nel crollo dell’Unione Sovietica dopo il fallito colpo di stato militare contro Gorbachov. Cosa sappiamo allora oggi del Kuwait? Cos’è rimasto nella nostra coscienza collettiva di quel dibattito e di quel conflitto, delle sue ragioni e dei suoi torti?  Che insegnamenti ci offre? Viviamo davvero in un piccolo villaggio globale?

Sui social l’anniversario è stato finora ricordato soprattutto per un dettaglio drammatico che emozionò l’Italia intera: l’abbattimento e la cattura di Bellini e Cocciolone, i due piloti del  Tornando dell’Aeronautica Militare caduto il primo giorno di guerra. Dopo la liberazione dell’Emirato i due aviatori tornarono a casa sani e salvi e furono celebrati come degli eroi. Bellini fu decorato ed il matrimonio di Cocciolone finì sui rotocalchi. Oggi sono entrambi appesantiti dal tempo, ma serenamente ritirati dal servizio attivo e vivono le loro vite da persone normali.

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Oggi la drammaticità delle dirette CNN sulla guerra del Golfo è stata superata da altre immagini emotivamente ancora più forti. Su tutte, il crollo delle torri gemelle di New York l’11 settembre 2001. Nel 1991 gli eventi del Kuwait ebbero tuttavia un enorme impatto emozionale. La guerra del Golfo segnò, infatti, l’avvento dell’era della CNN. L’illusione che la TV avesse finalmente realizzato la profezia di Marshall McLuhan, il noto teorico canadese dei mass media secondo cui la televisione sarebbe diventata un’estensione del nostro sistema nervoso ed il mondo si sarebbe ridotto di dimensione fino a diventare un piccolo “villaggio globale”. Per la prima volta, l’allora sconosciuto network americano di Atlanta, la città della Coca-Cola, trasmise la guerra in diretta. Tutto il globo poté seguire il drammatico susseguirsi degli eventi dal divano di casa. Ogni sera entravano in salotto dalla TV le terribili immagini dei caccia che decollavano dall’Arabia Saudita, seguiva la tensione dell’attesa fino all’arrivo sui cieli di Baghdad ed infine ecco la telecronaca in diretta delle bombe che cadevano sulla città. Tutto sembrava semplice e lineare. Tutti erano sintonizzati sullo stesso programma. Una volta tanto i buoni erano chiaramente distinti dai cattivi e noi tutti stavano dal lato giusto, quello benedetto dalle Nazioni Unite.

La guerra del Golfo fu in realtà un evento straordinariamente complesso che si può dividere in due parti complementari, ma chiaramente distinte. Non due facce della stessa medaglia, ma due narrazioni collegate sì, ma proprio diverse.

Da una parte vi fu la guerra vera e propria, con la sua attenta preparazione diplomatica all’ONU, il build-up miliare ed il suo svolgimento bellico sul terreno. Un conflitto molto serio  con l’impiego di tutta una nuova generazione di armi sviluppate dopo il Vietnam ed il suo pesantissimo costo umano. Come corollario vi fu anche un gravissimo disastro ambientale.

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In parallelo, vi fu la rappresentazione televisiva: il “guerra del Golfo TV show”. Un fenomeno storico a sé che segna, appunto, l’avvento dell’era della CNN come TV globale. Fummo allora tutti sommersi da un alluvione di notizie, reportage, opinioni, analisi e quant’altro, ma gli analisti più attenti notarono subito che i conti non tornavano. L’autorevole Le Monde diplomatique osservò che un’informazione eccessiva comporta una possibile disinformazione. L’Ambasciatore Sergio Romano scrisse che, paradossalmente, nonostante il profluvio di immagini, quella era stata una delle guerre meno “viste” della Storia. Aveva ragione.

L’invasione e la liberazione del Kuwait 

Ricordiamo allora brevemente i fatti. Il 2 agosto 1990, a sorpresa, Saddam Hussein invade il Kuwait e lo annette all’Iraq come sua diciannovesima Provincia.  Il mondo condanna l’aggressione e gli americani schierano delle truppe in difesa dell’Arabia Saudita. Segue una fase di stallo militare, di attivismo diplomatico e di crescente propaganda. Unione Sovietica e Stati Uniti questa volta agiscono d’intesa e l’ONU chiede il ritiro delle trippe irachene. In Kuwait gli iracheni assediano le Ambasciate dei Paesi che non riconoscono l’annessione, tra cui quella italiana. I nostri diplomatici resistono per oltre due mesi fino all’esaurimento delle scorte d’acqua. Sono quindi presi e portati come ostaggi a Baghdad, dove Saddam utilizza tutti gli occidentali, ed anche i russi, come scudi umani contro i possibili bombardamenti.

In novembre si registra un drammatico build-up militare. Russia e America stanno negoziando la riunificazione tedesca e Washington può ritirare le sue truppe dalla Germania. Con grande grancassa mediatica, un Corpo d’Armata corazzato viene trasferito direttamente in Arabia. Ora gli alleati schierano una forza sufficiente per rendere credibile una possibile offensiva.

In dicembre Saddam lascia andare gli ostaggi occidentali. Se pensava di addolcire così la posizione degli alleati si sbaglia ed il Consiglio di Sicurezza dell’ONU gli invia un ultimatum: deve ritirarsi dal Kuwait entro il 16 gennaio o ci saranno delle conseguenze.

Sull’onda dei servizi televisivi h24, la tensione cresce a livelli spasmodici. Saddam non cede, ma l’Unione Sovietica stavolta lo lascia al suo destino.

Il giorno del 16 gennaio non succede nulla, ma nella notte partono le ondate di attacchi aerei con i bombardamenti trasmessi in diretta dalla CNN.

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La campagna aerea è massiccia ed impressionante nel dispiego di nuove tecnologie di precisione. Ogni giorno, il comandante alleato, Generale Schwarzkopf, tiene un briefing alla stampa internazionale in cui mostra le immagini riprese dalle “bombe intelligenti” che colpiscono gli obiettivi.

L’impressione è quella di una schiacciante superiorità tecnologica, ma Saddam Hussein non cedere. Il 24 febbraio scatta pertanto l’offensiva terrestre, che aggira completamente il Kuwait   e punta molto più a Nord. Gli alleati isolano Bassora e tagliano in due l’Iraq. I carri americani arrivano in quattro giorni a minacciare Baghdad.

Kuwait City è liberata dal contingente arabo della colazione, ma senza una vera battaglia urbana perché gli iracheni si ritirano in rotta verso Bassora per evitare l’accerchiamento.

Dopo soli quattro giorni l’offensiva tuttavia si ferma.

L’obiettivo autorizzato dall’ONU era la liberazione del Kuwait e non l’invasione dell’Iraq per far cadere Saddam Hussein. Questa è del resto la posizione di Mosca dove i militari non apprezzano la dimostrazione della superiorità tecnologica americana, preludio di uno sgradito futuro unipolare. Gorbachov dice basta così.

Il Presidente Bush annuncia la fine delle ostilità e tutto il mondo tira un sospiro di sollievo. La terza guerra mondiale non c’è stata e neppure lo scontro di civiltà tra Islam ed Occidente. Schwarzkopf ed i suoi ragazzi tornano in America in trionfo. Anche i due piloti italiani vengono liberati e tornano a casa da eroi.

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I militari, ma soprattutto la macchina propagandistica occidentale, restano tuttavia con l’amaro in bocca. Ma come? Dopo tutta questa mobilitazione, eravamo arrivati ad un passo da Baghdad, potevano entrare in città e far cadere Saddam Hussein. Perché ci siamo fermati? Abbiamo lasciato il lavoro a metà.

Quali sono allora le discrepanze tra la guerra vera e l’evento televisivo? Quello che abbiamo visto sono solo propaganda e fake news? Qual è la vera storia del Kuwait?

Diplomazia e Propaganda. L’invasione fu una vera sorpresa?

La sorpresa per l’invasione del 2 agosto è in verità relativa poiché erano mesi che Saddam accusava il piccolo Emirato di voler affamare l’Iraq e minacciava l’uso della forza. Vi era molta tensione e diversi leader arabi, come l’egiziano Mubarak, il Re di Giordania o Yasser Arafat, avevano tentato una mediazione.

Vera sorpresa comunque ci fu perché, su pressione dei sauditi, iracheni e kuwaitiani si erano incontrati il giorno prima in Arabia per negoziare un compromesso ed una soluzione diplomatica interaraba della crisi sembrava a portata di mano.

La notte stessa la Guardia Repubblicana irachena invade invece il Kuwait. Lo scontro è disperatamente impari e la Guardia dell’Emiro resiste in città solo il tempo necessario per permettere alo Sceicco Jaber Al Sabah ed alla famiglia regnante di riparare in Arabia Saudita.

L’invasione è chiaramente una pesante violazione del diritto internazionale, della Carta dell’ONU e della Lega Araba. Saddam calcola tuttavia che nessuno interverrà a salvare il Kuwait e che, passate le scontate proteste verbali, il mondo finirà per accettare il fatto compiuto. Infondo, il sistema di sicurezza collettiva prevista dall’ONU è sempre stato bloccato dai veti incrociati. Nessuno interverrà a difendere gli Sceicchi.

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Invece no. Questa volta arriva subito una dichiarazione congiunta di condanna di Stati Uniti ed Unione sovietica.  America e Russia stavano allora attraversando un periodo di rara intesa. Nel 1989 era caduto il muro di Berlino, c’era sul tavolo la questione della riunificazione tedesca e della fine della guerra fredda. Mosca e Washington non vogliono farsi distrarre e dividere da una crisi regionale e deplorano immediatamente l’invasione. La condanna viene subito replicata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Saddam deve ritirarsi.

In verità, si scoprirà poi, gli americani non erano stati colti di sorpresa, ma avevano sottovalutato il pericolo. Le forze armate, con i satelliti e con apposite strutture di comando di teatro, controllano la situazione in tutto il mondo. L’unità incaricata di seguire il Golfo, guidata dal Generale Norman Schwarzkopf e basata a Tampa in Florida, aveva lanciato l’allarme. Osservando lo spostamento delle truppe irachene verso Sud aveva segnalato a Washington la concreta possibilità di un’invasione del Kuwait. Il livello politico non fu tuttavia impressionato. La rete della Ambasciate ed anche leader arabi in prima persona, come il Presidente Mubarak, avevano assicurato il Presidente Bush che una soluzione diplomatica inter araba era in arrivo.

Anche i russi, che pure schierano in Iraq decine di consiglieri militari,  avevano sottovalutato il rischio di invasione, sul presupposto che prima di compiere un gesto tanto azzardato Saddam Hussein avrebbe dovuto quantomeno informarli. In passato, agendo in maniera coordinata Mosca aveva coperto l’Iraq, ma questa volta no. Contrariata di essere stata messa davanti al fatto compiuto, la Russia si unisce all’America nella condanna e nella richiesta del ritiro.

Petrolio o scontro di civiltà? Norman Schwarzkopf e Khaled bin Sultan

In America, il comando militare che seguiva il Golfo segnala ora un altro rischio, ancora più grave. Se per caso, dopo il Kuwait, Saddam volesse invadere anche l’Arabia Saudita l’esercito del Regno non sarebbe in grado di resistere. Non vi è cioè nulla che possa impedire a Saddam di impadronirsi anche del petrolio saudita e di diventare quindi il signore assoluto dell’oro nero mondiale. L’Occidente può permettersi di correre questo rischio? Washington offre all’Arabia una immediata protezione militare. I sauditi, tuttavia, esitano.

Il vice Presidente Chiney con il Principe Sultan Al Saud

Gli americani sono forti, certo, ma altre volte in passato sono intervenuti pesante per poi ritirarsi poi unilateralmente. Lasciando cioè da soli con i loro nemici i governi che avevano inizialmente sostenuto. Il riferimento è certo al Vietnam, ma soprattutto al Libano, dove l’intervento americano degli anni ‘80 non aveva certo risolto la crisi. La famiglia Saud e tutti i Paesi del Golfo si chiedono: ci possiamo fidare? Il Kuwait,

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con il suo esperto Ministro degli Esteri e futuro Emiro, Sheik Sabah Al Sabah preme per accettare

Alla fine il Re dell’Arabia Saudita decide, va bene, ben venga la protezione degli Stati Uniti, ma le truppe saudite non saranno sottoposte ad un comandante americano. Ci sarà anzi una doppia linea di comando per le truppe fornite dai Paesi islamici, che saranno guidate dal Generale Khaled bin Sultan Al Saud, principe saudita.

Il Gen. Schwarzkopf con il Gen. Khaled bin Sultan Al Saud

Questo passaggio militare, assolutamente non percepito in Occidente all’epoca, è molto importante e risponde nei fatti a tutta la propaganda che voleva dipingere la guerra come una nuova crociata imperialista preludio di un inevitabile scontro di civiltà tra Occidente e Mondo arabo. In realtà, la doppia catena di comando fu un grande risultato diplomatico ottenuto dai sauditi in difesa della loro sovranità e della dignità di tutto il mondo islamico. Nella seconda guerra mondiale neppure gli inglesi erano riusciti a tanto ed il Generale Montgomery era gerarchicamente sottoposto ad Eisenhower. Perfino Churchill dovette piegarsi ed accettare i piani del comando americano.

Lungi dal costituire un esempio di scontro di civiltà, come da molti profetizzato, la prima guerra del Golfo fu un caso di scuola di diplomazia multilaterale onusiana e di dialogo di civiltà militare. Uno dei segreti del successo della liberazione del Kuwait fu, infatti ,proprio il rapporto formalmente alla pari tra Schwarzkopf e Khaled bin Sultan e la grande attenzione al rispetto della sensibilità islamica della componente araba della coalizione. Non a caso, le truppe che liberarono Kuwait City furono arabe.

Come sappiamo, la presenza di truppe americane in Arabia Saudita sarà la molla che fa scattare il terrorismo di Al Qaida contro gli Al Saud e l’America, ma l’alleanza tra Washington e Riyadh è ancora oggi più forte che mai.

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In mancanza di analisi serie, il petrolio viene puntualmente indicato come causa di tutti i mali del Medio Oriente fin dai tempi di Nabuccodonosor. In realtà, quello che ha portato la comunità internazionale a non accettare l’invasione del Kuwait e l’ONU a dirigerne la liberazione dell’Emirato non è stato solo il petrolio, ma soprattutto la diplomazia ed il mutato contesto mondiale. Da un punto di vista del petrolio in senso stretto, la guerra Iran-Iraq del decennio precedente aveva costituito un pericolo pressoché analogo per la sicurezza dei rifornimenti energetici mondiali, ma allora la comunità internazionale non si mosse. Il petrolio è quindi una spiegazione necessaria, ma non sufficiente. Anche la diplomazia conta e, nelle relazioni internazionali, gli errori si pagano.

Quando Saddam Hussein proclamò l’annessione del Kuwait come 19ma provincia irachena, ingiunse a tutto il mondo di chiudere le Ambasciate e trasferire i diplomatici a Baghdad. I Paesi Occidentali rifiutano e gli iracheni staccano le utenze ed assediano le Ambasciate, compresa quella italiana dove, nel calore dell’estate kuwaitiana, sono asserragliati l’Ambasciatore Marco Colombo ed il Segretario Massimo Rustico. Con gli occidentali Saddam cerca dunque di negoziare da un punto di forza. Centinaia di europei ed americani presenti nel Paese vengono presi in ostaggio ed utilizzati come scudi umani per scoraggiare possibili bombardamenti aerei contro le infrastrutture sensibili. Saddam, infastidito dalla immediata condanna sovietica, commette l’errore di prendere in ostaggio anche dei russi, ivi compresi i consiglieri militari. Gorbachov deve inviare Eugeny Primakov, futuro Primo Ministro e fine arabista, a negoziare la loro liberazione.

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Seguono alcuni mesi di stallo militare e di intensa attività diplomatica. Il Presidente Bush padre era molto esperto in campo internazionale ed anche questo ha fatto la differenza. Negli anni 70’ era stato alla guida della Rappresentanza americana alle Nazioni Unite ed, in seguito, Direttore della CIA. Capisce l’importanza di costruire una vasta alleanza in sede ONU e la necessità di rispettare i tempi che la diplomazia richiede. Alla fine, i Paesi che invieranno truppe a liberare il Kuwait saranno ben 35, compresa l’Italia.

La guerra del Golfo in TV: informazione e pregiudizi nella Grande Babilonia Globale

Il dispiegamento americano in Arabia viene chiamato Operazione Scudo del Deserto ed a dirigerla è il Generale che per primo aveva segnalato il pericolo di invasione: Norman Schwarzkopf.

Schwarzkopf, con i suoi briefing alla stampa internazionale sull’esito dei bombardamenti con i video degli ordigni intelligenti diventerà una star televisiva mondiale. Meno noto al grande pubblico è che da bambino ha vissuto in Persia. Il padre, anch’egli Generale, aveva servito in Iran durante la seconda guerra mondiale. La Persia era stata invasa dagli anglo-sovietici e rappresentava un vitale corridoio logistico di rifornimento militare alla Russia di Stalin durante la battaglia di Stalingrado. Schwarzkopf Senior aveva allora curato

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l’addestramento dei giovani ufficiali persiani. Schwarzkopf Senior viene nuovamente inviato in Persia nel 1953, al tempo del colpo di Stato che depose il Presidente Mossadeq e rimise sul Trono del Pavone lo Scià. Ma questa è un’altra storia.

Oggi appare molto chiaro come il comando americano, con i suoi briefing quotidiani e molto altro, abbia sapientemente utilizzato la TV per confondere le idee al nemico e vincere più facilmente la guerra. Un esempio clamoroso fu l’attesa battaglia urbana a Kuwait City. Durante il build-up che preparò l’attacco terrestre, la CNN mostrò più volte i Marines che si preparavano ad uno sbarco, stile Normandia, direttamente in città. Saddam Hussein ed i suoi generali ci credettero e risposero fortificando e minando il lungomare di Kuwait City, come Rommel aveva fatto con il Vallo Atlantico nella seconda guerra mondiale. A difesa della città era schierato un intero Corpo d’Armata.

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Nonostante un piccolo esercito di quindicimila giornalisti di tutto il mondo presenti in Arabia e lo spostamento in massa di mezzo milione di soldati, l’attacco terrestre si sviluppò invece, a totale sorpresa, in pieno deserto a circa 150 chilometri all’interno della costa. I difensori iracheni di Kuwait City capirono il pericolo di finire in trappola e si ritirarono in rotta sotto i bombardamenti aerei. Fu un massacro. L’autostrada della morte che da Kuwait portava a Bassora, era un lunghissimo cimitero, ma quelle immagini terribili non circolarono sugli schermi TV. Dopo gli errori comunicativi fatti in Vietnam, la guerra del Golfo del 1991 fu presentata come chirurgica. Asettica. Quasi del tutto priva di immagini di morte.

Un altro esempio di sfasatura tra la guerra vera e la sua narrazione televisiva fu il racconto della Vittoria. Sulla base delle immagini viste in TV, sembrava che la forza militare di Saddam Hussein fosse stata debellata, che la sua sconfitta fosse totale e che il dittatore sarebbe quindi a breve caduto. Saddam restò invece in sella per altri dodici anni ed anche dopo la sua scomparsa il conflitto iracheno appare per molti versi ancora aperto.

Allora internet ancora non esisteva, la CNN aveva quasi un monopolio dell’informazione globale e poteva presentarsi al pubblico mondiale con un’aurea di imparzialità basata sulla potenza ”oggettiva” delle immagini.  Oggi non è più cosi. Ci sono ormai molti altri canali All News internazionali che offrono punti di vista anche molto diversi tra loro (come la BBC World, Al Jazeera, France 24, Deutsche Welle Euronews, CCTV ecc.) e c’è soprattutto la rete come fonte di notizie disintermediate rispetto ai mass media ufficiali. L’oggettività delle informazioni ed anche delle immagini non è più data per scontata e viene anzi regolarmente messa in discussione dai cacciatori di Fake News e dai debunker di complotti.

C’è qui da fare una osservazione strutturale sulla natura della comunicazione umana che la guerra del Kuwait illustra molto bene: essere informati con significa comprendere. Se la TV ed internet sembrano aver cancellato le distanze di spazio e tempo creando l’impressione di vivere tutti in un piccolo villaggio globale, in realtà la tecnologia non cancella affatto le distanze culturali, sociali, religiose, economiche e politiche esistenti nel pianeta. Un villaggio è, per definizione, un luogo familiare e sicuro dove tutti si conoscono e rispettano le stesse regole condivise. Nel mondo coesistono invece culture, religioni, ideologie, economie non omogenee e che non necessariamente si conoscono e si capiscono. La tecnologia non riduce allora il globo in un piccolo villaggio, ma piuttosto in una nuova Babele, l’archetipo biblico della frammentazione culturale ingestibile. La nuova Babilonia di cui cantava Bob Marley, il profeta della musica Reggae.

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Anche un’immagine non ha un suo significato “oggettivo” ed assoluto e può essere recepita con significati opposti in base alla formazione individuale ed al contesto culturale di chi la riceve. Se vediamo un’immagine di forte impatto emotivo proveniente da un contesto culturale molto diverso dal nostro, scatta comunque in noi una reazione morale che si traduce in una richiesta di risposta politica. Questa richiesta di risposta politica implica una implicita razionalizzazione del problema che si vorrebbe risolvere. Se tuttavia questa reazione emotiva scatta su contesti di cui non si ha una vera comprensione, la lacuna cognitiva viene coperta tramite estensione analogica di altre nozioni che riteniamo simili. In una parola con dei pregiudizi. In TV e su internet, l’informazione senza comprensione rischia di essere una fabbrica di pregiudizi. Con l’avvento oggi di internet e dei social media il problema rischia di aggravarsi perché con i telefonini si perde molto del linguaggio non verbale, quel body language, che gioca un ruolo molto importante nelle interazioni umane. Oltre cha fabbricare pregiudizi la tecnologia rischia quindi di alimentare i malintesi anche entro lo stesso perimetro culturale.

Talleyrand, Ministro degli Esteri di Napoleone, diceva che la parola serve a nascondere il pensiero. Nel 1991 Schwarzkopf ha utilizzato la TV per nascondere le sue mosse al nemico. Noi oggi dovremmo imparare che non ci sono risposte semplici a questioni difficili e che per capire i problemi del mondo bisogna studiarli con uno sforzo di approfondimento ed intermediazione culturale che sappia andare oltre le impressioni e le emozioni. Anche quando si parla del piccolo Kuwait.

Stefano Beltrame è l’autore del libro: Storia del Kuwait.

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