Il 21 febbraio del 1921 a Livorno veniva fondato il Partito Comunista d’Italia, sezione italiana dell’Internazionale Comunista figlia della Rivoluzione d’Ottobre. In un secolo di vita è cambiato tutto, ma il PCI è ancora qui. Ha cambiato nome più volte, oggi si chiama Partito Democratico, ma ha ancora un suo grande rilievo nel paese, a differenza delle forze che nacquero all’inizio del secolo scorso. In occasione del centenario Francesco Riccio, uno dei massimi dirigenti del partito negli anni ’80, ’90 e 2000, ha scritto un primo capitolo intimo di questa storia che qui pubblichiamo.  (Guido Talarico) 

di Francesco Riccio

Arrivavo molto presto. Non solo per l’abitudine di svegliarmi all’alba. In motorino, il mitico, allora, SH50. In fondo alla strada c’era l’auto che aspettava Pajetta. Abitava di fronte ad uno degli ingressi di Villa Pamphili, via Pio Foà, una casa strapiena di quadri di Mafai. Il padre di Miriam, Sua compagna di vita che incontravo abitualmente dal fruttivendolo. Poi in via Dandolo, prima di incrociare vle Trastevere, alla fermata del 75, c’era in attesa Alfredo Reichlin. Il Maestro. Sempre elegante il loden verde ed il cappello. Solo un timido accenno di saluto. Mica potevo dirgli, sali dietro che ti do uno strappo. Timore reverenziale e scomodità del mezzo, diciamo.

Parcheggio accanto a Piazza del Gesù. Mattinieri anche gli amici/ nemici. Lì le auto erano tutte blu ed i titolari erano appena usciti dalla Chiesa del Gesù. Dei Gesuiti. Messa e caffè.  Il caffè invece lo prendevamo da Vezio, dietro via dei Polacchi. Lì altra Chiesa accanto al Bottegone. Una sezione per ogni campanile. Una costante del marcamento ad uomo tra DC e PCI. Il bar di Vezio era una sorta di Tabernacolo del PCI. Un Santa sontorum dove le foto della nostra Storia arredavano gli scaffali accanto ai gagliardetti delle delegazioni dei Paesi dell’ Est. Ed al mitico Che. Il tempo di accingermi alla tazzina e vedevo entrare i dirigenti più anziani, il giovane D’ Alema, i compagni della Vigilanza. Forse quelli che son rimasti di più nella mia memoria.

L’ingresso mattutino era da via dei Polacchi. C’ erano l’ufficio postale e l’economato. Tante caselle dove si ritirava la posta, la mazzetta dei giornali, la rassegna stampa. E si incrociavano i bellissimi occhi di Sabrina. La chiamavo Ocie Ciornie, anche se non erano neri, come quelli della protagonista dello splendido film di Michalcov. Un saluto all’ufficio stampa, battute e risate con Altero, Pigi, Claudio e le bellissime compagne del taglia ed incolla frenetico del mattino. Poi in portineria a comprare l’Unità. I giornali erano a-gratis, perché strumento di lavoro. Ma l’Unità, giustamente te la pagavi. Del resto i benefit in quella Casa famiglia che era il PCI erano tanti. Lo sconto sugli occhiali, i vestiti, i libri. Per non parlare dei servizi sanitari con ambulatorio interno nell’ ammezzato, dove il mitico Pedicino curava tutti i pargoli comunisti, fino alle Cliniche private di Spallone, il medico di Togliatti. Un welfare autogestito. Del resto eravamo ” in partibus infidelium” e quindi eravamo attrezzati.

Verso le otto e mezzo le porte scorrevoli del grande atrio di Jo Pomodoro si aprivano per intero. Arrivava il Segretario che rapido si infilava nell’ascensore che porta al secondo piano, il piano nobile, dove accanto all’Ufficio del Segretario Generale c’era l’ufficio di Dama, veneto, segretario del CC e geloso custode dei verbali allora segreti. Noi, impiegati e funzionari, usavamo l’ascensore del corridoio, devo dire che non soffrivamo per questa discriminazione. Da questo ascensore si accedeva ai Piani dove c’erano le sezioni di lavoro. Ampi corridoi che consentivano piacevoli chiacchiere, tra la lettura di un giornale ed un riunione. L’apoteosi del corridoio avveniva in occasione delle riunioni del CC, al 5 piano, pieno di compagni che venivano da tutta Italia.

In ambulatorio mi fermavo spesso per una strizzata alle ossa, causa cervicale. Le mani esperte di judoka, mi rimettevano a posto.
Spesso mi fermavo al primo piano. Il regno di Fassino. Lì era tutto frenetico. Il suo attivismo era proverbiale. Quando si trattò di entrare nell’Internazionale Socialista si racconta che ci fu chiesta una mission impossible. Contattare personalmente tutti i partiti in presenza, diciamo. Un giro del mondo in poche ore. Ma, aggiungeva D’Alema, non sapevano che noi avevamo Fassino. Fatto.
A Botteghe Oscure arrivai nel 1988 come responsabile Nazionale delle Feste de l’Unità. Venivo da Bologna. Dove c’erano due grandi Università. L’Alma Mater in via Zamboni e il PCI in via Barberia, nel bellissimo Palazzo Marescotti. Quando Veltroni, dopo la Festa Nazionale che si era tenuta a Bologna, mi chiese di lavorare con lui a Roma cercai di resistere, inventandomi di tutto. Il PCI a Bologna era come la placenta. Non volevo uscire da quel comodo involucro che forniva di tutto. Amicizie vere, passione, prestigio ed un sicuro stipendio per vivere, in altri posti, Direzione compresa, spesso revocato in dubbio.

Ma eravamo la federazionepiùgrandedelmondooccidentale. Così, tutto di un fiato. Eravamo orgogliosi e credo anche conseguenti. Il Palazzo, dicevo, era stupendo. Sala Rossa, Sala del CF. Stanza del Segretario. Soffitti con stucchi e affreschi di grande valore artistico. Il sottotetto restaurato da PL Cervellati, ospitava la Redazione de l’Unità. Da capo ufficio stampa passavo parecchie ore sotto quei soffitti con travi a vista. Erano un po’ turbolenti i giornalisti. In quel periodo dirigeva la redazione un compagno a me carissimo. Scanzonato, bravissimo, salernitano. Con i compagni bolognesi, quelli della Federazione e della sezione Fergnani, ho costruito un rapporto bellissimo che dura e durerà nel tempo. Affetti che non subiscono l’usura del tempo.

Alla fine cedetti all’insistenza di Veltroni e mi trasferi’ a Roma. Gennaio 1988. Sesto Piano. Era il piano più IN. Dava sul grande terrazzo con vista su piazza Venezia, e dove Livia Turco ogni tanto si esponeva al sole. Era il piano di Raffaella Fioretta, il nostro collegamento con il mondo del cinema, della TV , dello spettacolo. Salivi e ti capitava di incontrare Nanny Loy che ti invitava a giocare ai cavalli a Capannelle, o Ettore Scola che ti stampava in due minuti una caricatura, o Emanuela Giordano a parlare di una pièce su Gramsci. Se c’ era casino di compagne voleva dire che era arrivato Massimo Ghini. O il Principe De Gregori. Casino che si rinnovava quando, trasferito al terzo piano, in tesoreria, arrivava il giovane Marchini al quale un giorno D’Alema disse abbiamo visto i soldi di tuo nonno e di tuo zio. Mancano i tuoi. Doveva entrare come azionista di maggioranza a l’Unita’. Avvenne poco dopo.

Al sesto c’erano i grafici. Bruno Magno, il padre della Quercia e
Luciano Prati. Gli eredi di Albe Steiner. E c’era Francesco Neri. Mirandolese, che da Pico aveva ereditato una memoria prodigiosa. Delle Feste sapeva tutto. Le Sue previsioni sui numeri sempre perfette. Su un miliardo poteva sbagliare di cento mila lire. Prodigioso. Walter ci riuniva presto per studiare una campagna o una manifestazione. Ci chiamava a consulto. Ma aveva in mente già tutto. ” Non si spezza una storia non si interrompe un’emozione.” Il felice slogan della campagna contro l’interruzione pubblicitaria dei film, nacque in quell’ ufficio. La segreteria era Silvia, una specie di Claudia Cardinale.

Alle dieci pausa. Perché dal bottegaio/ gioielliere di via dei Polacchi arrivavano i tozzeetti caldi. Li farcivo con mortadella e li distribuivo al piano. La mia era la stanza della ” puttana”, per il vociante via vai di varia umanità. Dietro la scrivania una grande foto anni venti degli operai della Pignone. Veltroni per sfottere Vincenzo Vita un giorno la battezzò la mozione Bassolino. Eravamo sotto Congresso. Al sesto, defilato, ci stava Cossutta. Grande rispetto, malgrado le divergenze. Eppoi era il capo storico dell’ Inter Club Botteghe Oscure. Pietro Folena era il capo tifoso. Non vi dico l’emozione di quando arrivò in visita Giacinto Facchetti. Fine prima puntata.

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