di Guido Talarico

Se c’erano parole che i sostenitori delle democrazie costituzionali non avrebbero mai voluto sentire pronunciare dal presidente di una grande nazione, beh questi signori sono stati puntualmente scontentati da Donald Trump. Interrogato circa una transizione pacifica dopo le elezioni del prossimo 3 novembre, il presidente ha risposto candidamente “vedremo quello che succede…”. Una frase non troppo sibillina che i benevoli possono interpretare con un “si, accetto il risultato se non ci saranno stati brogli”, mentre i malevoli (che adreottianamente sono la maggior parte) la interpretano con un “se vince Biden, non mollo comunque la presa”. Dalla Casa Bianca si sono subito affrettati a correggere il tiro: “Il presidente accetterà il risultato di elezioni libere e imparziali”, ha detto la portavoce Kayleigh McEnany, rispondendo a chi gli chiedeva di commentare l’uscita di Trump.

L’interpretazione autentica del pensiero trumpiano arriva però subito dopo da uno che conosce bene il presidente. E’ Steve Bannon, l’ex consigliere della Casa Bianca, il quale se ne è uscito così: «ci sarà l’equivalente di una guerra civile, che comincerà la sera del 3 novembre, quando si rifiuteranno di dichiarare Trump presidente». Come riferisce Paolo Mastrolilli, corrispondente de La Stampa dagli Stati Uniti, Bannon fa questa illuminante precisazione durante un webinar del Metropolitan Republican Club, evento organizzato per spiegare ai militari la strategia da attuare per sgominare il complotto ed intitolato, tanto per essere chiari, «I democratici stanno rubando queste elezioni».

Queste uscite, che, naturalmente non sono affatto casuali, possono essere viste in molti modi. Possono cioè essere lette con le lenti ideologiche che ciascuno preferisce e dunque finire per essere considerate partigiane ma legittime, come fossero cioè parte della normale, anche se ormai sempre più forzata, dialettica politica contemporanea. Parlare alla pancia dell’elettorato del resto, anche quello più bieco, è una cosa alla quale Trump ci ha abituato sin dalla sua campagna elettorale. In questo caso però si ha l’impressione che Trump abbia deciso di varcare il Rubicone, un confine che nelle democrazie occidentali più avanzate finora non si era mai oltrepassato. Il dado che “Potus” trae in questo caso è quello che, come dicevamo all’inizio, leva il sonno ai sostenitori della democrazia più pura, quella costituzionale.

Per democrazie costituzionali – giova forse ricordalo con le parole dell’Associazione Italiana Costituzionalisti – possono intendersi quegli ordinamenti giuridici che, pur facendo proprio il principio democratico, impongono al potere politico (e alle sue legittime manifestazioni di volontà) limiti esterni, derivanti direttamente dalla norma costituzionale”. Ora il principio del riconoscimento del risultato elettorale è uno dei cardini delle democrazie più evolute, un limite che fin qui mai nessuno ha voluto valicare. Neppure quando il risultato era veramente discutibile. Nella storia recente, la vittoria di George Bush Jr. contro Al Gore è uno dei casi più emblematici. Alla fine di quelle consultazioni ci furono forti tensioni, ma poi alla fine il democratico chiamò il repubblicano ammettendo la propria sconfitta.

Con questa uscita dunque Trump che cosa fa? Alza semplicemente il tiro. Chiama alle armi i suoi per farli andare al votare, paventando, non si sa in base a quali informazioni, il rischio di brogli e truffe elettorali. Il che in fondo vuol dire due cose. La prima è che, sapendo di essere per ora ampiamente dietro allo sfidante democratico, Trump ha necessità di recuperare e pure in fretta. Quindi una implicita ammissione di debolezza. La seconda è che pur di riacquistare la fiducia persa di larghe fette del suo elettorato è disposto a rompere le regole. Anche le più sacre, quelle scritte nella pietra dai padri costituenti. Che è poi esattamente il rimprovero che i presidenti della “migliore democrazia del mondo” muovono spesso a quelle cosiddette minori.

Gli Stati Uniti rischiano dunque di diventare come la Bielorussia? No, non ci crede nessuno. La democrazia americana è effettivamente tra le migliori al mondo perché ha al suo interno gli anticorpi sufficienti a debellare anche i più perfidi virus populisti. Il sogno americano è fatto di tante cose, alcune forse per noi originali, come ad esempio di diritto alla felicità o il diritto a sparare a chiunque entri abusivamente nella propria casa. Ma il sogno americano si basa essenzialmente sul rispetto delle regole. Innanzitutto quelle che sono alla base della vita democratica.

Le parole di Trump, neanche a dirlo, hanno suscitato forti reazioni, anche perchè un problema reale c’è. Con la pandemia i voti per posta cresceranno e questo farà si che il verdetto finale possa arrivare soltanto molti giorni dopo. Gli analisti sanno bene che la maggioranza dei repubblicani andrà a votare fisicamente, mentre tra i democratici c’è una preferenza per il voto via posta. L’incubo di Joe Biden è dunque avere un Trump che si autoproclama vincitore il giorno dopo le elezioni, senza attendere la più lenta conta dei voti arrivati per posta, e poi, se il conteggio finale gli andrà male, gridare al complotto denunciando brogli. E’ a questo che si sta preparando Trump. Una situazione oggettivamente esplosiva, tant’è che i democratici hanno addiritttura chiesto l’intervento dell’esercito a salvaguardia del risultato elettorale. Evenienza alquanto disdicevole per una nazione che vanta il marchio di fabrica della migliore democrazia al punto che è decenni che tenta di esportare il suo modello nel mondo, per altro senza grandi successo (Iraq docet).

Alla fine comunque questa nuova uscita sopra le righe del presidente americano, che essendo uomo di business sa bene che sarà eventualmente proprio il sistema delle multinazionali ad imporgli il rispetto delle regole, potrebbe essere soltanto l’ennesima forzatura mediatica di un uomo che sa quali corde pizzicare per riportare al suo gran ballo quella destra oltranzista che la crisi economica post Covid gli ha allontanato. E, intendiamoci bene, potrebbe anche riuscire nel recupero impossibile. Chiamare Hillary Clinton per delucidazioni sull’argomento rimonte elettorali.

Provocazioni a parte, quello che qui ci interessa sottolineare è il tema di fondo, vale a dire l’efficacia del sistema delle regole che governano le grandi democrazie. I nostri sistemi elettorali funzionano adeguatamente? E’ una domando retorica. In realtà dappertutto si avvertono forze centripete che pongono un problema grave: l’inefficacia delle leggi che disciplinano la vita delle nostre società. Sulla fine della democrazia del resto è anni che costituzionlisti e saggisti vari scrivono denunciandone i rischi.

In Italia, con un referendum approvato a larga maggioranza, abbiamo appena diminuito il numero dei parlamentari. Segno che l’elettorato vuole una riforma. Ora è obbligatorio riformulare la legge elettorale. Saremo capaci di riscriverle adeguandoci alla società dell’era digitale? Beppe Grillo parla di democrazie online, a consultazione diretta e senza parlamenti, Donald Trump parla di sistemi elettorali truccati prima ancora che si voti. Si, certo: è tattica, spesso sono solo strumentalizzazioni prelettorali. Ma il tema di fondo rimane. La rappresentanza delle masse è garantita? Il potere è ancora in mano al popolo? Questa è una favola a cui non crede (quasi) più nessuno. Dunque, non lasciamoci fuorviare dalle provocazioni. Prendiamole per quelle che sono, reagiamo indignamoci anche, come è giusto che sia, ma poi concentriamoci sulla soluzione del problema principale, che proprio uscite come quelle di Trump e Grillo ci ricordano essere improcrastinabile. Le nostre democrazie vanno riformate, le regole, da quelle per la gestione della burocrazia alle leggi elettorali, devono interpretare e rispondere alle esigenze dell’epoca in cui vivono e vigono. E’ il problema principale, è la sfida più alta di questa seconda decade degli anni 2000.

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