La pandemia ridisegna la geopolitica: una Cina sempre più aggressiva, si accorda con il regime sciita di Teheran, spiazzando gli Usa e modificando forse per sempre gli equilibri costruiti nell’area sin dal dopo guerra da americani, inglesi e loro alleati

 

di Velia Iacovino

Mentre l’emergenza Covid 19, mal gestita dall’amministrazione Trump, sta mettendo a dura prova gli Stati Uniti, con un numero di contagi che è piu’ che raddoppiato da giugno a oggi e ha superato i 4 milioni di casi, la Cina, iniziale epicentro dell’epidemia, accusata da piu’ parti di aver contribuito con la sua scarsa trasparenza alla diffusione del virus, sta tornando sulla scena internazionale piu’ agguerrita che mai e decisa a conquistarsi la leadership sulla scena globale, approfittando del momento di fragilita’ e debolezza del suo principale competitor internazionale. Terreno di gioco di quest’ultima partita di risiko del gigante asiatico è il Medio Oriente, Iran in primis -ma non solo-  colpito al cuore dalle sanzioni  e devastato dal coronavirus, e con il quale Pechino ha riesumato nei giorni scorsi una vecchia intesa, siglata nel 2016, che dovrebbe portare ad un accordo della durata di 25 anni e del valore complessivo di 400 mld di dollari da destinare a vari settori, compreso quello degli armamenti e dell’intelligence.  E’ da qui, da questa regione devastata da conflitti e instabilita’, depredata in ogni modo dall’Occidente, che Xi Jiping  sembra intenzionato a ripartire rimettendo mano alla Belt and Road Iniziative, il suo ambizioso progetto per la realizzazione di nuove vie della seta varato nel 2013, che dovra’ essere portato a compimento entro il 2049 quando la Repubblica popolare festeggera’ il suo centeneraio: un inedito risiko, che vede la Cina impegnata in colossali investimenti in 70 paesi, e che si fonda su partnership economiche non sempre cristalline, basate su una serie di condizioni che mirano a influenzare le politiche degli alleati. Accordi, apparentemente convenienti e innocui, ma che sono di fatto veri e propri trojan.

La strategia cinese del malaware

La strategia cinese del malaware e dell’ asso pigliatutto da sempre inquieta profondamente Donald Trump, che finora non è mai riuscito nell’intento di  arginarla. La  politica estera della sua amministrazione continua a mostrarsi marcatamente ondivaga e dislessica -e questo non aiuta- con uno staff fin troppo impegnato a contenere i danni del personalissimo modo di governare del presidente, piu’ da businessman che ha a cuore solo la sua dinastia e i profitti, che da statista capace di grandi visioni proiettate verso il futuro. Il risultato? Una serie di mosse sbagliate che hanno pregiudicato l’immagine stessa degli Stati Uniti come potenza leader del mondo. Due in primo luogo: aver inutilmente spostato l’attenzione dalla Cina, sulla quale Trump l’aveva tuttavia inizialmente concentrata, alla Russia, che non ha da tempo alcuna potenzialita’ di pericoloso sfidante; e aver abbandonato l’area del Pacifico uscendo dal Tpp, l’accordo di Partnerariato Trans-Pacifico, al quale aveva intensamente lavorato il suo predecessore Barack Obama, che avrebbe garantito una sorta di barriera di protezione in questa zona del pianeta contro le mire espansionistiche di Pechino.  Scelte che hanno prodotto un riavvicinamento del gigante asiatico a Mosca, sottoposta per altro a sanzioni anche europee per la vicenda dell’ Ucraina, che in questo modo, assicurandosi le materie prime russe, indispensabili al proprio sviluppo economico, ha rafforzato nel tempo la sua forza di impatto. Non solo, dopo l’abbandono del Tpp, Trump, con la sua politica protezionista, ha anche finito per compromettere salde e antiche relazioni con paesi come con il Giappone e la Corea del Sud, da sempre nemici giurati di Pechino, pensando persino di poter snobbare Seul scendendo a patti con la Corea del Nord e istaurando un filo diretto con l’inaffidabilissimo Kim Jong-un.

La partita  americana in Medio Oriente

Un autogol si sta rivelando anche la politica messa in atto dall’attuale amministrazione americana in Medio Oriente, prima con l’uscita di Trump dall’accordo sul nucleare -sottoscritto da Obama con il sostegno di Ue e Onu e l’intento di avviare un sostanziale disimpegno statunitense nella regione- e poi con “il piano del secolo per Israele”. Iniziative letali che, in maniera non piu’ controllabile da Washington e dai suoi alleati europei, hanno modificato equilibri e alleanze tra gli stati arabi e spianato la strada all’entrata in campo della Cina, che non è ormai piu’ soltanto un  giocatore in panchina ma rischia di diventare il capocannoniere di una partita sempre piu’ complessa e vischiosa. L’Iran, ripiombato nella lista nera degli stati canaglia, con l’accusa di lavorare ad armi atomiche letali, di finanziare il terrorismo e di voler espandere la propria egemonia, pesantemente vessato da sanzioni anche secondarie, la cui attuazione è stata imposta dagli Usa anche ai partner europei, e devastato dal Covid 19, non poteva dunque che cedere, nonostante le forti resistenze interne, alle nuove allettanti lusinghe di Pechino. Non solo, l’accanimento americano contro Teheran, ha rafforzato semmai il regime degli ayatollah, spazzando via ogni anelito riformista, ha avuto come conseguenza una nuova rischiosa impennata  dell’attivita’ nei laboratori nucleari, dove è cominciata davvero e dichiaratamente la corsa all’arricchimento dell’uranio, e ha spinto Teheran a moltiplicare il suo sostegno concreto ai simpatizzanti sciiti fuori dei confini. Mentre, su un altro fronte, la guerra senza ragioni dichiarata dagli Stati Uniti agli ayatollah, ha spaccato l’alleanza tra i paesi del Golfo, che da tre anni hanno posto sotto stretto embargo il Qatar, accusandolo di intrattenere relazioni speciali con l’Iran, ha potenziato le ambizioni saudite, ha pericolosamente avvicinato Mosca alla Turchia, che ormai sta cercando di imporsi come primo player nel Mediterraneo, e mandato in tilt il Libano, segnato dalla peggiore crisi economica della sua storia.

Iran sull’orlo del precipizio

In questo scenario va collocata l’ultima iniziativa di Pechino, un’iniziativa economica ma che rischia fortemente e suo malgrado di avere ricadute politiche di enorme  portata, e alla quale il leader supremo iraniano Ali Khamenei (foto a sinistra) ha concesso il suo imprimatur, cosa che ha smorzato l’incandescente dibattito che la riesumazione dell’accordo con la Cina aveva spinto i falchi del regime a riaccendere, primo fra tutti il potente deputato Mohammed Ahmadi Bigashi, che alcuni giorni fa aveva espresso con forza il timore nei confronti di un cosi’ forte impegno finanziario con Pechino, per poi fare invece un deciso passo indietro. La situazione nel paese è drammatica. Gli ayatollah lo sanno bene, il malcontento popolare è talmente dilagante che c’è chi teme un nuovo tentativo di golpe come quello sventato un anno e mezzo fa. Di conseguenza l’intesa con la Cina, che non vuole perdere, in un momento cosi’ finanziariamente difficile per il mondo intero, una simile opportunita’, si profila come un’opzione senza alternative. Il vantaggio apparentemente è alla pari per entrambi i paesi. Se l’accordo va in porto, Pechino si assicura infatti rifornimenti di petrolio e gas a prezzi stracciati per i prossimi 25 anni e il controllo sulle infrastrutture iraniane. Di contro Teheran evita la bancarotta e  il rischio incombente di una nuova rivoluzione. Ma la situazione non è del tutto lineare come puo’ apparire e come la descrivono alcuni osservatori. Intanto non è giunta nessuna  conferma ufficiale sulla ripresa dei negoziati preliminari all’accordo e si continua a rimanere al punto in cui si era arrivati nel 2016 dopo la visita di Xi a Teheran, cioè a un livello di intesa tutta da perfezionare e il cui impatto va analizzato nel quadro delle altre relazioni che la Cina contemporaneamente intrattiene con i diversi paesi dell’area, a cominciare da Arabia Saudita ed Emirati, acerrimi nemici di Teheran, che con Pechino stanno lavorando a partnership simili a quelle che la Cina ha proposto all’Iran.

Ma Pechino tratta anche con l’Arabia Saudita  

I negoziati sono in corso e ad alto livello visto che la commissione congiunta costituita ad hoc è presieduta dal vicepremier cinese Han Zheng e dall’erede al trono di Riad Mohammed Bin Salman e per gli emirati da Khaldun al Mubarak, la cui controparte è Yang Jiechi, altissimo funzionario del Pcc, membro di spicco dei 25 del Politburo, ex ministro degli esteri.  Il 24 luglio scorso – pochi giorni dopo le indiscrezioni emerse sull’accordo con Teheran-  non a caso sauditi e cinesi hanno diffuso il contenuto di una telefonata tra il consigliere di Stato di Pechino e ministro degli Esteri Wang Yi e il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan Al-Saud (foto) in occasione del trentesimo anniversario dell’avvio delle loro relazioni diplomatiche. Nel corso del colloquio, come è stato riportato dai media internazionali, Wang ha affermato che la Cina è pronta a lavorare con l’Arabia Saudita per dare attuazione alla  importante intesa raggiunta tra i leader dei due Paesi, impegnati a rafforzare costantemente la reciproca fiducia in campo politico, a sostenersi a vicenda e a favorire un allineamento profondo della Belt and Road Initiative con la Saudi Arabia’s Vision 2030.

La strategia del Soft Power

Tutto cio’ non sorprende affatto se si analizza il modello di strategia di Pechino, che si propone sempre e volutamente come partner neutrale per apparire il piu’ possibile formalmente estraneo a conflitti e giochi regionali, disinteressato a interferire nelle vicende interne dei paesi o a schierarsi con l’uno e con l’altro, disponibile soltanto a offrire, nel reciproco interesse, soccorso economico e pratico ai paesi, che ne hanno bisogno. Ma di fatto per niente esitante a esercitare al momento opportuno tutto il potere possibile sull’quell’eventuale controparte che alla fine non si rivelasse in grado di assolvere ai suoi obblighi contrattuali. Ed è proprio la straordinaria capacita’ di soft power di Pechino a creare problemi agli Stati Uniti, che avrebbero bisogno di un nuovo Henry Kissinger per contrastare con l’arte della diplomazia  e della politica non improvvisata le trame cinesi. Un Kissinger che al momento non sembra ancora profilarsi all’orizzonte. In molti si chiedono cosa succedera’ e se la nuova alleanza tra Iran e Cina ridisegnera’ lo scacchiere internazionale.

Scenari fluidi e antiche relazioni

Ma lo scenario è troppo fluido e troppe sono le variabili in campo (tra cui le elezioni americane di novembre e l’emergenza Covid ) per azzardare previsioni… Forse sul futuro accordo tra Teheran e Pechino si sta un po’ troppo enfatizzando. Non è certo il primo, anche in epoca recente, e non sara’ sicuramente l’ultimo nella storia millenaria dei rapporti culturali, economici, commerciali tra i due paesi, rapporti che risalgono al 200 a.C e che nel corso della storia si andarono di volta in volta intensificando e indebolendo, e che si svilupparono proprio attraverso quel reticolo, lungo circa 8 000 km, costituito da itinerari terrestri, marittimi e fluviali attraverso i quali nell’antichità si snodavano gli scambi tra l’impero cinese e il resto del mondo.

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